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Scritto da Vito Fascina | Categoria: Cultura

Nel 2023, per una felice contemporaneità di date, due grandi romanzieri europei, Alessandro Manzoni e John Ronald Tolkien, vivono l’anniversario del loro transito al Cielo. Il milanese morì nella sua città natale il 22 maggio 1873, mentre il sudafricano terminò la sua vita terrena il 2 settembre 1973 a Bournemounth per poi riposaread Oxford, città che lo adottò per studi scientifici e produzione letteraria.

Questo contributo intende offrire alla riflessione di studiosi e cultori appassionati dei due grandi autori uno sguardo a specchio sul ruolo della misericordia, per cogliere nel concepimento della loro opera artistica la ricerca di senso e un percorso d’insegnamento, a beneficio della sterminata distesa di lettori, che in questi due secoli ne hanno conosciuto e apprezzato il messaggio.

La prima riflessione da fare è sulla Tolkien’s Library: Oronzo Cilli, archivista internazionale del Professore, ci mostra come non compaiono testi manzoniani e copie de IPromessi Sposi, a differenza dell’Alighieri, del quale egli possedeva non solo la colta edizione de La Divina Commedia commentata  da Attilio Momigliano, in lingua originale, ma anche importanti estratti della Vita Nova, de LeRime e di una delle epistole a Cangrande della Scala. Non abbiamo, perciò, contezza della sua conoscenza diretta del romanziere milanese

Si può pensare, però, ad una tale simpatia, ad una osmosi valoriale tra i due, che lo sguardo misericordioso, come valore, rappresenti il fondamento e l’esito più alto della conoscenza del Padre, il lavorio interiore e artistico di due cesellatori della parola, frutto di conoscenza, ascolto e scrutatio nella Parola di Dio, attraverso la piena conoscenza della Bibbia.

I testi esaminati in questo saggio sono fondamentalmente i due capolavori, faticosa ed articolata elaborazione durata circa un ventennio: per Manzoni dal 1821 al 1840; per Tolkien dal 1938, inizio del lavoro post Hobbit, al 1954-55, anno di pubblicazione di The Lord of the Rings.

Una seconda riflessione introduttiva riguarda la maniera attraverso la quale si è giunti al faccia a faccia tra i due Autori cristiani. Certo, da parte nostra, la frequentazione di una vita dei loro testi ha aiutato, ma l’ispirazione è venuta dal quaresimale 2022 del Vicariato di Roma che Fabio Rosini ha proposto con la lectio manzonianadi Franco Nembrini, intitolata: «Che c’è d’allegro in questo maledetto paese?».

 Ecco se esiste una chiave ermeneutica, una cartina di tornasole per indicare la sofferenza del peccatore e la sua rinascita, essa è rappresentata dal buio totale della lontananza dall’Amore e la luce beatificante della guarigione e del perdono.

Ora il confronto fra i due scrittori, così amati da milioni di persone, ci aiuterà a comprendere come al percorso tradizionale di Manzoni fa eco quello più moderno e novecentesco di Ronald Tolkien.

 

1. Il perdono manzoniano e i rintocchi per il lettore

 Il credente e il dubbioso rimangono decisamente stupiti e scioccati da quell’indimenticabile conclusione della notte infernale dell’Innominato.

C’è un preambolo necessario; nel cap. XX, i due protagonisti del dialogo, la povera Lucia e il potente signorotto, vengono presentati con due periodi lapidari:

 «Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri» …

«Cosa strana! Quell’uomo, che aveva disposto a freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore».

 All’inizio del XXI capitolo, per bocca del Nibbio, Qualcuno scaglia un dardo, che aprirà una decisa e sanguinosa ferita nel cuore del prepotente: «Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo … M’ha fatto troppa compassione».  E l’Innominato: «Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?».

Ecco, nel drammatico buio notturno, il forte signore si ritrova di fronte a tre grandi avversari: la compassione, il tempo e la misericordia. La battaglia è impari; non è un nemico vincibile, perché il dubbio dell’ateo e del cinico si sono trasformati nello sbalordimento di chi viene buttato giù dal proprio cavallo, da quell’animale impetuoso che si chiama egoismo e superbia.

Il riassunto della vita è devastante. I ricordi e la memoria dei misfatti risalgono uno alla volta e la ferita si trasforma in un lago di lacrime, di tradimenti, di misere azioni che lo spingono a porre una linea dopo il terribile processo: togliersi la vita. È solo, decisamente debole, impacciato, insignificante, lui che aveva schiacciato e umiliato tutti i suoi avversari.

Ma col passare delle ore, quell’esame senza via d’uscita, viene scalfito dalle parole del Nibbio: «compassione»; e di Lucia: «misericordia». Improvvisamente il giudizio muta di direzione e da un padrone che l’aveva condannato e demolito, si ritrova a intravvedere lo sguardo tenero di un Padre, che l’attendeva da sempre.

È il miracolo. Ora è lui che può scoprire, ritrovare il senso dell’allegria in un “maledetto paese”, come appare la vita a chi si rifugia nel proprio diabolico egoismo, nel pensare di non essere fragile creatura, ma titanico “faber suae quisque fortunae”.

«Ecco nell’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia si era addormentata, ecco che stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro». Così la Grazia arriva al cuore di chi si converte, come un rintocco di campane a festa, all’inizio leggero perché la mano di Dio è molto rispettosa, ma poi il Suo amore ti travolge e tutto risuona a festa.

Per quanto riguarda il successivo incontro con il card. Borromeo e il suo esito, è bello raccontare ciò che ho vissuto di persona, un giorno nell’episcopio di Molfetta, durante una visita, a don Tonino Bello, con il sig. Vincenzo, un laborioso collaboratore dei padri gesuiti di Bari. Costui mi aveva chiesto di poter incontrare il vescovo di Molfetta, per una sua difficile situazione. Una mattina fummo ricevuti.

L’anziano servitore iniziò a raccontarsi, quando, avendo dichiarato di avere due mogli, scoppiò in lacrime. Don Tonino lo abbracciò e lasciandoci letteralmente allibiti, cominciò a chiedergli scusa, per non essere stato lui a rintracciarlo prima e confessò di essere in torto, per non essersi messo in cerca, a tempo dovuto, di quella pecorella smarrita. Mi tornarono alla mente le inimitabili parole del Manzoni, del XXIII capitolo: «Oh – disse: – che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!» e quindi della tenerezza del cardinal Borromeo con il famigerato Conte del Sagrato, ormai vinto dal perdono di un Padre innamorato.

Sì, l’incontro tra il vescovo pugliese e il buon Vincenzo mi hanno ricordato ed insegnato che la realtà sovrabbonda rispetto alla fantasia e che la misericordia parte sempre da Dio ed è Lui a muoversi prima, anche se, per farci sentire, co-protagonisti, ci chiede scusa del suo strano ritardo. Che classe ha questo Signore!

Un secondo episodio che aiuta a comprendere l’articolazione ricca e abbondante della misericordia nel capolavoro lombardo è il successivo colloquio fra lo stesso cardinale e un altro prototipo di uomo miserevole: don Abbondio.

Nel XXVI capitolo, ci si ritrova stavolta d’innanzi ad un nuovo peccato capitale: l’accidia o il non far mente locale come le nostre scelte debbano significare una vita responsabile e di servizio agli altri. La pigrizia, la fragilità caratteriale, la scelta di appoggiarsi sempre alle ragioni del più forte, avevano reso il curato dei due promessi corresponsabile del crimine di don Rodrigo. Infatti il matrimonio, non celebrato, aveva condotto alla fuga, all’esilio i due poveri giovani.

A specchio si confrontano e ci viene rappresentato un nuovo germoglio di umanità. Inizialmente vi è un rimprovero-correzione:

 

«Ma questo m’accora, questo m’atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d’accusa da ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa?».

 

E poi c’è la conversione vera e propria, l’inizio di una vita nuova per il curato:

 

«Don Abbondio stava zitto … Il male degli altri, dalla considerazione del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e confusione».

 

Lo scrittore milanese amplifica la sua incantevole narrazione con altre due pagine indimenticabili e ambientate in un luogo, il lazzaretto, che ci richiama la difficile condizione di chi si trovi, nella storia, a vivere un’epidemia o una pandemia durante la propria vicenda esistenziale.

Un primo lacerto narrativo ci presenta tre protagonisti decisivi per la trama manzoniana: Renzo, padre Cristoforo e don Rodrigo, morente. Il dialogo fra il padre e il figlio spirituale declina la forza della giusta misericordia e della misericordia che ha radici di vera giustizia:

 

«Ardiresti tu di pretendere che io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch’io parli del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? T’ho ascoltato quando tu chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciato la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene. […] – Ah, gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre! – esclamò il giovane».

 

E poi continuando nello scavo interiore del frastornato giovane:

«Senti Renzo: Egli ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinare la vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e misericordia per impedirtela; ti fa una grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno. Tu sai, tu l’hai detto tante volte, ch’Egli può fermare la mano d’un prepotente, ma sappi che può fermare anche quella di un vendicativo. E perché sei povero, perché sei offeso, credi ch’Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine?».

 

Emergono alcune importanti riflessioni-percorso: la giustizia vera, quella che riguarda il giudizio ultimo sull’uomo e sugli accadimenti, tocca a Dio,poiché il cuore di ogni essere umano appartiene al suo infallibile dis-velamento; si esterna il vero senso del perdono: a Dio è possibile esercitarlo, in quel momento, sempre e per l’eternità; all’uomo è richiesto un lungo viaggio, un cammino di ripulitura dell’anima, per allontanare il suo passionale e, perciò, falso giudizio su persone e fatti. Infine la carità è proprietà esclusiva di chi sa diventare padre e madre per davvero, alla scuola del Padre celeste.

 Nel percorrere questo luogo di dolore, il giovane promesso ascolta la memorabile omelia di padre Felice agli appestati guariti e a quelli in pericolo di morte. Le parole di quest’uomo, poco dopo l’incontro fra Renzo e don Rodrigo, spinga ogni lettore antico e nuovo de I Promessi Sposi a riscoprire il capolavoro e ad accorgersi della purezza filiale del grande Alessandro Manzoni. Eccone alcuni passaggi più significativi:

 

      «Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là; e col dito alzato

       sopra la spalla, accennava dietro la porta che mette al cimitero di San

       Gregorio […], diamo intorno un’occhiata ai mille e mille che rimangon qui,

       troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un’occhiata a noi, così pochi,

       che n’usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia,

       benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute!

       benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l’ha voluto,

      figlioli, se non per serbarsi un piccolo popolo corretto dall’afflizione, e

       infervorato dalla gratitudine? Se non a fine che, sentendo ora più vivamente,

       che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa

       data da Lui, l’impieghiamo nelle opere che si possono offrire a Lui?».

 

E poi:

«Cominciamo da questo viaggio, da’ primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità. Quelli che son tornati nell’antico vigore, diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani sostenete i vecchi; voi che siete rimasti senza figlioli, vedete intorno a voi, quanti figlioli rimasti senza padre! Siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori.

 

Ci si accomiata dal fresco e sempre nuovo messaggio, dall’insegnamento del Manzoni, ai rintocchi di una sera milanese, ancora piena d’incognite, ma con nuove speranze nel cuore di Renzo, lasciando la parola a John Tolkien sr. e ai suoi intrepidi Hobbit

 

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