Scritto da Ivano Sassanelli | Categoria: Cultura
Seconda parte
La solitudine dei giovani e i veri maestri
In questa seconda parte del nostro percorso all’interno dell’animo umano, risulta opportuno trattare uno degli argomenti più urgenti e di stretta attualità: la solitudine dei giovani.
Un tale problema umano e generazionale potrebbe essere trattato sotto l’aspetto meramente sociologico descrivendo i fattori di natura economico-sociale che hanno condotto e conducono molti giovani ad abbandonare sogni, speranze e terre di origine per cercare un futuro migliore; oppure si potrebbero analizzare le cause della devianza giovanile o delle diverse dipendenze – come alcol e droga – che alienano il soggetto in fase di crescita e maturazione umana.
Questo, però, non è lo scopo della nostra riflessione che vuole delineare – seppur in maniera fugace – le conseguenze dell’incontro del Mistero dell’Amore di Dio con le profondità dell’esistenza umana.
Innanzitutto c’è da compiere una chiarificazione preliminare: il termine “giovane” – o “giovinezza” – può designare una pluralità di significati o essere utilizzato in diverse maniere. Infatti si può “essere giovani” e ci si può “sentire giovani”: la percezione di se stessi travalica spesso gli spazi angusti dell’età anagrafica. Dall’altro lato, la voglia di vivere in maniera giovanile, l’essere “eterni ragazzi” e il non voler crescere mai, porta a non riconoscere più il proprio vissuto o, peggio ancora, a voler negare il fluire della vita ed eliminare il senso esistenziale della morte. Inoltre, particolarmente rilevante è ciò che accade nella vita di un giovane, quando si trova a fronteggiare i problemi del mondo, della sua famiglia, della sua crescita umana, spirituale e intellettuale sentendosi spesso scoraggiato, abbandonato, preda delle sue paure più recondite (come ad esempio: non essere capito dagli altri; o sentirsi non all’altezza di una situazione; o ancora non vedere riconosciuto il proprio valore; o non riuscire a sopportare la spietata competizione esistente nel mondo degli studi e del lavoro).
La sua solitudine, unitamente alla crescente insoddisfazione personale, può schiacciare a tal punto un giovane da farlo cadere, conducendolo spesso in un baratro che egli stesso si è scavato e dal quale non sa uscirne. Per questo i giovani, oggi come ieri, hanno bisogno tanto di “testimonianza” quanto di “conoscenza” di Cristo, delle profondità umane, delle verità di fede e dei diversi saperi. Solo così la fede può essere trasmessa e non confusa con un “fervore spirituale” che dura il tempo di una preghiera e vale solo per il soggetto interessato senza possibilità di essere partecipato con gli altri.
Per dare “ragione” della speranza che è in loro, i giovani devono riappropriarsi di se stessi alla luce della relazione tra la loro fede e la realtà sociale che si trovano dinanzi. Per far questo è essenziale recuperare figura del “direttore (o accompagnatore) spirituale” che aiuti – senza mai sostituirsi ad essi – i giovani a discernere le strade più consone per loro. In questo ambito è necessario che ci siano chierici e laici, uomini e donne, ben formati umanamente e spiritualmente al fine di venire incontro alle domande dei ragazzi e delle ragazze a loro affidati.
Oltre a quello ecclesiale, un settore privilegiato per tale accompagnamento, è quello della Scuola e dell’Università. In questi ambiti formativi il compito degli studenti è quello di non stancarsi mai nel ricercare e amare la verità che, per chi crede, è la persona stessa di Cristo. Infatti, per il cristiano la Verità esiste ed è il Logos, il Verbo incarnato, che ha condiviso tutto della natura umana, eccetto il peccato.
Per converso esiste una responsabilità profonda in capo a coloro che sono chiamati a vivere accanto a questi giovani: non basta essere professori o professionisti, servono “veri maestri”. Se si volessero delineare più in profondità i tratti distintivi del “vero maestro”, a nostro avviso, bisognerebbe partire dal fatto che egli o ella non dovrebbe mai sentirsi un maestro ma, tutt’al più, dovrebbe essere riconosciuto come tale dagli altri e, in particolar modo, dai propri discenti. Il “vero maestro”, senza saperlo, segna il cuore della persona che gli sta di fronte.
Emblematica, in tal senso, è la vicenda dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Questi due discepoli, sconsolati dopo la morte di Gesù, avevano incontrato un viandante che, lungo la via, aveva iniziato a parlare loro della Scrittura. Essi non sapevano chi fosse ne dove andasse ma, nello spezzare il pane, lo avevano riconosciuto: era proprio lui, il “Maestro”. Esattamente in quel momento Gesù sparì dalla loro vista e, tornando a ripensare a ciò che era stato detto loro lungo la via, si erano detti: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto?».
Questo deve fare un “vero maestro”: segnare il cuore del discente e infiammarlo, accendendolo di gioia, meraviglia e speranza. Sì, proprio di speranza, la perfetta sconosciuta dei nostri giorni. Infatti, non di rado, nelle aule di scuola come in quelle universitarie, sembra campeggiare la scritta di dantesca memoria: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Questo scoramento, però, non può essere l’ultima parola. Infatti, la speranza non è l’“ultima a morire” ma è la “prima a nascere” perché nasce con l’essere umano stesso e connota la sua natura più profonda.
Per tali motivi, proprio nel momento di maggior sconforto e di difficoltà, il “vero maestro” deve mostrare ai ragazzi e alle ragazze che esiste una via alternativa allo smarrimento. Insegnare non vuol dire riempire la mente dello studente di nozioni o risposte precostituite ma, piuttosto, significa compiere un’opera maieutica consistente nel far sì che nel discente nascano quelle domande che egli non si sarebbe mai posto. In questo percorso il “vero maestro” deve assumersi la responsabilità, l’onere e l’onore, di portare con sé la persona in formazione e di sollevarla nei momenti difficili. Il discente, perciò, deve essere posto al centro del percorso formativo ed esistenziale che sta vivendo.
Il “vero maestro”, inoltre, è colui che sa valutare e imparare dalle vicissitudini della vita, percependo come e chi aiutare nei momenti di difficoltà che sembrano insormontabili per l’allievo. L’insegnante deve essere non solo maestro ma deve saper diventare “studente e apprendista” in ascolto attento del mondo e di coloro che sono affidati al suo sapere umano e accademico.
Questa modalità di relazione deve essere la costante del rapporto educativo, anche quando esso giunge al termine. Infatti il “vero maestro” deve saper lasciar andare il proprio studente quando, alla fine del percorso, prenderà altre strade. Sarà poi lo studente stesso a riferirsi agli insegnamenti del proprio maestro qualora questi lo abbiano toccato nel profondo e gli abbiano lasciato un’impronta indelebile.
Da tutto questo è evidente che, oggi come ieri, l’essere insegnante significa riappropriarsi di questa sapienza antica e odierna al contempo, di questo essere “maestri” alla scuola del “vero ed unico Maestro”, Gesù Cristo.