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Scritto da Vito Fascina | Categoria: Cultura  |  Pubblicato il 21/02/2024

In Italia, Andrea Monda ha proposto per primo un chiaro confronto fra i due romanzieri, a partire da un testo collettaneo ove vengono mostrate le affinità elettive tra i classici e Tolkien; ma, ancor più, con il suo percorso di studi sull’oxoniense ha indicato le tante radici di misericordia che i suoi testi propongono. Le chiavi di lettura da lui proposte indicano dei parallelismi molto forti tra Il Signore degli Anelli e I Promessi Sposi.

Il primo ambito è quello ideativo. Entrambi posseggono una forte propensione per il dato reale, per l’insegnamento della Storia, ma argomentano il loro percorso narrativo sulla simbiosi che la realtà mostra con la Fantasia. Lo scrittore anglosassone presenta un dettagliato prologo, dove viene descritto con dovizia di particolari la Terra di Mezzo, il locus privilegiato della vicenda. Lo sguardo manzoniano ci rimanda a «Quel ramo del lago di Como», al castello dell’Innominato, alla descrizione della Milano appestata, con un percorso visivo che ci delinea le grandi capacità osservative di un autore ottocentesco.

A rivelare ad entrambi l’itinerario, sono due documenti, quindi due lasciti storici, molto diversi. Il manoscritto seicentesco, artisticamente posseduto e prodotto dal meneghino, serve a datare i fatti presentati e ad evitare la pericolosa censura della società austro-ungarica, in cui si muoveva il primo Manzoni.

Il Professore oxoniense, invece, rivela che furono proprio gli Hobbit a redigere il Libro Rosso dei Confini Occidentali e tramite delle copie fatte per i discendenti di Samwise, il fedele accompagnatore di Frodo, era arrivata una copia anche a lui. Si noti come in Tolkien la narrazione assume fin dall’inizio un mix di storico e fantastico, forgiati per essere un unicum: la Storia edifica la Fantasia e quest’ultima innalza i fatti storici.

Il secondo grande tema è quello che Monda definisce come la sfida verso il chrónos, verso lo svolgimento della vita umana. Le storie sono due: quella dei grandi uomini e quella  degli umili manzoniani accanto agli hobbit tolkieniani. La Battaglia dei Cinque Eserciti raccontata ne Lo Hobbit condivide in pieno il dramma delle guerra seicentesca del ducato di Milano e nasce dal quel moto dell’animo umano, che contagia tutti, quando la follia si sposa con l’orgoglio e la sete insaziabile del possesso.

Ciò che maggiormente unisce i due romanzi è nell’azione che Frodo e compagni, da un lato, e Renzo e Lucia, dall’altro, producono nella narrazione, spinti dalla Provvidenza e dall’intervento della Grazia: «Essi dovunque andranno porteranno lo scompiglio, una piccola rivoluzione nei luoghi (e soprattutto nei cuori) che attraverseranno. Si pensi in riferimento a Tolkien, a Lothlorien, a Fangorn, a Rohan, a Isengard, a Gondor, per non parlare di Mordor: tutti luoghi che non saranno più come erano prima dell’avvento degli hobbit», sottolinea il Monda.

Queste sono le più profonde relazioni nel concepire i due lavori, ma la misericordia tolkieniana, pur attingendo alla traditio, si muove secondo i canoni del cristianesimo novecentesco e seguendo due itinerari distinti, ma confluenti: Il Signore degli Anelli e l’epistolario, redatto, con grande cura, postumo.

Il centro della sua indagine è nei comportamenti, nel dialogo-confronto, nello sguardo distinto  e fragile di Frodo, il portatore e primo protagonista; di Samwise, custode del padrone, ma anche storico, ossia raccoglitore dei documenti vergati da Bilbo e Frodo; di Gollum, disperato nella cerca della sua vita, l’anello, e ultimo possessore, prima della distruzione. Esaminiamo i tre a Monte Doom, a Monte Fato o al Monte del Giudizio, come ha scritto Ivano Sassanelli nel suo “vangelo di Gollum”.

 

«Come destato da un’improvvisa campana, Frodo si alzò velocemente e guardò verso sud; ma quando i suoi occhi videro la Montagna e il deserto, si scoraggiò nuovamente. “Non ce la faccio, Sam, –  disse. – È un tale peso da portare, un tale peso!”. Sam sapeva, prima ancora di pronunciarle, che le sue parole erano vane, e che potevano causare più male che bene, ma in preda a compassione, non seppe trattenersi. “Allora lasciate che lo porti io, Padrone, per qualche tempo – disse – “Lo sapete che lo farei, e con piacere, fino a esaurire le mie forze”. Una luce selvaggia apparve negli occhi di Frodo. “Sta’ lontano! Non mi toccare!”, gridò. “Ti dico che è mio. Vattene !”. […] “Ma devi comprendere è il mio fardello, e nessun altro può portarlo. È troppo tardi ormai, Sam caro. […] Sono quasi in suo potere, ormai. Non riuscirei ad affidartelo, e se tu cercassi di prenderlo impazzirei”».

 

Ecco, avvicinandosi alla meta, il viandante, il portatore sente il peso della vita, dei combattimenti, della ferita subita dai Nazgul, ma soprattutto scopre la sua Incompiutezza, il suo essere incompleto, ad un miglio dall’obiettivo, ma anche di andare incontro ad una possibile e terribile morte. Ad agire in lui sono il gesto di compassione di Sam e la misericordia di Qualcuno, che, diversamente da Manzoni, non viene nominato, ma c’è, altro se c’è!

Frodo si è scoperto così insufficiente in un intero e faticoso percorso, non solo in un momento chiaro e definitivo e ciò mostra la delicatezza dell’Autore verso chi lo legge. Il Novecento ha voluto far sparire la presenza di Dio, del misericordioso, ma ne ha acuito la nostalgia e il bisogno.

John Ronald Tolkien rivive con il suo primo attore, in quel drammatico contesto, tre scampanellii, tre memorie della sua vita, percorsa dalla pietas cristiana: la conversione della madre, che provocò tanti disagi a lei, in primis, e ai due figlioli. Mabel insegnò al ragazzo che c’è un agens, un protagonista, che ricompensa sempre, protegge nel suo grembo, come fa una vera madre, un figlio in difficoltà e disperato. Questa fu la cifra della sua avventura terrena, poiché la famiglia di lei non accettò mai la conversione della donna al cattolicesimo.  

La guerra, lo pose, poi, dinanzi al dolore più straziante, alla violenza più inaudita che un uomo possa subire e vivere: l’uccisione dal fratello.

Infine la memoria del pericolo più grande, quello di smarrire la strada, di non avere più la forza di andare avanti e qui il ricordo, lontano nel tempo, di un padre che lo aveva preso in braccio. Ecco, tutto questo viene presentato, senza nominare nulla di religioso, senza pronunciare il nome ineffabile del misericordioso.

Poco più tardi è il soliloquio di Sam Gamgee a rivelarci altri connotati della misericordia, ossia il sostenere gli scoraggiati, i derelitti:

 

«Non riusciva a dormire e si mise a discutere con se stesso. “Suvvia, abbiamo fatto meglio di quanto sperassi”, disse con tono gagliardo. “Chi ben comincia… Direi che abbiamo percorso metà della istanza prima di fermarci. Un altro giorno e ci siamo”. E poi tacque. “Non essere uno stolto, Sam Gamgee”, rispose sempre la sua voce. “Non ce la farà a camminare per un altro giorno con lo stesso ritmo, ammesso che riesca a muoversi”. […] Non aveva le idee chiare. Frodo non gli aveva parlato molto del suo compito, e Sam sapeva molto vagamente che l’anello doveva in qualche modo venire gettato nel fuoco. […] “È tutto inutile! L’ha detto anche lui”. […] “Ci arriverò, dovessi abbandonare tutto salvo le mie ossa”, disse Sam. “E porterò io in braccio il signor Frodo, dovessi rompermi la schiena e schiantarmi il cuore. Quindi, piantala di discutere!”».

 

In questo monologo lo scrittore anglosassone ci rappresenta un’altra modalità della misericordia: il sorgere, il manifestarsi col dubbio; l’azione forte del discernimento, del tentativo di comprendere ciò che è veramente il bene da farsi e, infine, il coraggio che nasce nel cuore. Quando l’azione paziente e la riflessione della mente si sposta nel cuore, la possibilità di ben agire si moltiplica. Misteriosamente, Qualcheduno si fa carico di scegliere la strada migliore per noi. Le forze si moltiplicano e, pur nel dubbio, s’intraprende la via più giusta. Ecco la ricetta tolkieniana è frutto di un sapiente lavorio del nostro cuore, dove il retto pensare, produce il dubbio, ma, con la giusta umiltà, ci rivolgiamo a chi, sapendone di più e meglio, possa guidarci nel cammino.

La più misteriosa e difficile pagina da comprendere, riguarda il misero Gollum. Egli è probabilmente il più inseguito dalla misericordia divina, colui che ha richiesto Passione e Croce, Getsemani e Calvario. Il lettore più attento ricorderà come già il mago Gandalf l’avesse cercato, persino difeso dalla sete di protagonismo di Frodo. La sua impresa finale si conclude con quell’ultimo e ridondante: «Mio Tesoro!».

A che cosa si allude? In una visione fatalistica, da Monte del Fato, egli paga con l’ultimo errore una vita drammatica, a conclusione tragica. Esiste, però, una lettura differente in cui il distruttore dell’anello non è un personaggio così devastato e sofferente. Compare, ancora più silenzioso, ma vero unico protagonista, il Misericordioso che accoglie il reprobo sconfitto. Quel tuffo, quella impensabile conclusione si trasforma in qualcosa di luminoso: l’imprevedibilità del bene, come ha intitolato il suo ultimo studio Monda.

Un giorno, racconta un biografo del Santo Curato d’Ars, una donna si recò da lui per confessarsi. Era disperata, afflitta e sconvolta, poiché suo marito era morto, lanciandosi da un ponte, nella Senna. Il santo confessore, alfine, la tranquillizzò, con alcune lapidarie parole: «Si ricordi, signora, che tra il ponte e la Senna, c’è Qualcuno che vigila».

 

Ecco, per la portata impensabile che il capolavoro tolkieniano ha avuto su milioni di lettori, per la partecipazione emotiva e le mille domande che ha suscitato, il finale così bisognoso di riconciliazione di Gollum può veramente offrire una conclusione aperta, dubbiosa, che rappresenti il luogo più bello dove si costruiscono le domande più profonde, scaturite dall’intimior intimo meo agostiniano e dove si nasconde il nostro vero Tesoro, Dio misericordioso. Lasciamo parlare il testo:

 

“Tesoro, tesoro, tesoro!”, gridò Gollum. “Mio Tesoro! O mio Tesoro!”. E mentre pronunciava quelle parole, con gli occhi verso l’alto, gongolanti di gioia alla vista della sua conquista, mise un piede in fallo, inciampò, vacillò un istante sull’orlo, e poi precipitò con un urlo. Dagli abissi giunse il suo ultimo lamentevole Tesoro ed egli scomparve per sempre. Seguì un boato e immenso tumulto. Fuochi avvamparono sino al soffitto. Il rombo divenne un gigantesco fragore, e la Montagna tremò. Sam corse da Frodo e, raccoltolo, lo portò fuori della porta. Lì, sulla nera soglia del Sammath Naur, fu colto da tale orrore e meraviglia che rimase immobile, dimentico di ogni altra cosa, guardandosi intorno pietrificato. […] “Ebbene, questa è la fine, Sam Gamgee”, disse una voce accanto a lui. Frodo era lì, pallido e consunto, eppure di nuovo se stesso: nei suoi occhi non vi era più pazzia, né timore, né lotte interiori, ma pace. Il suo fardello non esisteva più. […] “Ma ricordi le parole di Gandalf: Persino Gollum potrebbe aver ancora qualcosa da fare? Se non fosse stato per lui, Sam, non avrei distrutto l’Anello. La Missione sarebbe stata vana, proprio alla fine. Quindi, perdoniamolo!”».

 

    Assaporando lo spessore testuale, emergono tre momenti topici:

 

a) Il gesto finale di Gollum lo rende non solo co-protagonista con gli altri due hobbit, ma apre un deciso dibattito su quegli occhi verso l’alto e sul loro gongolanti di gioia. Non avrà visto Qualcuno o una luce abbagliante nel momento dell’estrema conquista? O proprio quel Tesoro che Gollum aveva cercato fino a diventare altro da sé, a perdersi,  non avrebbe, a sua volta, ritrovato quel figlio perduto e confuso?

b) I tre appaiono a Monte Doom dinanzi ad un trono del Giudizio, ad un momento in cui il loro viaggio appare non soltanto comunitario, ma sinodale. Sono tre individualità, ma hanno imparato a camminare, incespicando, cadendo, soffrendo … insieme.

c) La parola perdono mostra tutta la forza dirompente della misericordia. La pace non può germogliare senza la giustizia, ma questa si alimenta, si scalda al fuoco del perdono.

 

La forma di saggio e in un contesto di sguardi diversi, come spesso avviene in un convegno di studi, fa sì che si abbandoni il capolavoro e si tenti di far emergere l’humus ispirativo, rinvenibile nell’epistolario di Tolkien.

Quando Humphrey Carpenter mise mano alle copiose lettere di Ronald Tolkien, aiutato da Christopher, il figlio che per tutta la vita affiancò il padre e ne vide i disegni, gli studi e la produzione artistico-letteraria, offrì una prima e documentata ricostruzione del lavorio narrativo, ma anche delle precise domande che i lettori chiedevano al professore e scrittore.

Tutte poggiano su un’architettura provvidenziale e su come l’amore divino abbia influito sul pensiero e l’azione di Tolkien sr.

Propongo tre epistole che vogliono offrire un altro sguardo, quello fondativo, ma anche sul dopo, su come una tale ricchezza editoriale e valoriale potesse diventare patrimonio e condivisione con tutti. Insomma, chi lo legge con cura si renderà conto che il dialogo, l’ascolto degli altri affinò e sorprese lo stesso Autore, nella comprensione della sua opera e del suo vissuto.

Volendo ancor più notare la bellezza del tutto, si può affermare che con l’uso dell’epistolario, ad esempio con lo Zibaldone leopardiano ottocentesco, si nota la presenza di un potenziale lettore, mentre  con quello dell’inglese ci si apre ad un dialogo reale e continuo.

Joanne K. Rowling, nello sviluppo del personaggio di Harry Potter, si è inserita in questo percorso tolkieniano, decisamente innovativo e aperto a mille domande, come ha ben dimostrato Marina Lenti, nel suo saggio sulla grande estimatrice del maestro.

Nella prima epistola, la 191, indirizzata a Miss J. Burn, datata 26 luglio 1956, quindi poco dopo la prima edizione dell’opera principale, lo scrittore inglese affronta due tematiche fondamentali: il motivo della salvezza di Frodo, nonostante le sue cadute e forti fragilità; e la base biblica di questo suo finale così aperto. Prima il testo e poi le adeguate riflessioni.

 

«Tutti lo onoravano, perché aveva accettato volontariamente il fardello, e poi aveva fatto tutto il possibile dal punto di vista della sua forza fisica e mentale. Lui (e la Causa) vennero salvati dalla pietà; grazie al valore supremo e all’efficacia della compassione e della capacità di perdonare le offese. […] Penso piuttosto all’ultima richiesta del Padre Nostro: “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male”. Una richiesta di qualcosa che non può succedere è senza significato. Esiste la possibilità che la tentazione vada al di là del potere del singolo. Nel qual caso (come credo) la salvezza dalla rovina dipenderà da qualcosa che è apparentemente è slegato: la santità generale (e l’umiltà e la compassione) della persona sacrificale. […] (Gollum aveva avuto la possibilità di pentirsi, e di ricambiare la generosità con l’affetto ma aveva fallito). […] No, Frodo “ha fallito”. È probabile che una volta che l’anello è stato distrutto lui ricordi molto poco dell’ultima scena. Ma è necessario affrontare il dato di fatto: al potere del Male nel mondo le creature incarnate, per quanto buone, non possono resistere fino alla fine; e chi ha scritto la Storia non è uno di noi».

 

 

Aveva citato la Prima Lettera ai Corinzi 10,12-13, ma poi si era decisamente dirottato sul Padre Nostro. La lettura puntuale attraversa con dovizia di argomentazione il primato a chi tocchi (al Padre, a Dio); alle reali impossibilità di una creatura di sopportare, senza l’aiuto misterioso e misericordioso del faber della Storia, la prova decisiva e infine al fallimento di entrambi i protagonisti, ma con un esito decisamente diverso, perché ha vinto ancora una volta la pietà, la giustizia comprensiva.

Poi dirà, alla fine della lettera, che per far capire tutto il suo ragionamento narrativo, ha dovuto rovesciare la pubblicazione dei suoi capolavori e offrirli in ordine inverso, alludendo al fatto che per ogni lettore è più facile comprendere il senso del tutto, se si parte dal ruolo silenzioso e riparatore di chi ama fino a offrire Suo Figlio in sacrificio. La mitopoiesi verrà dopo e, infatti, Christopher la pubblicherà alla sua morte.

La lettera 250, indirizzata al figlio Michael, datata novembre 1963, ci presenta un sorprendente confronto: la fedeltà all’insegnamento e alla Chiesa. Le parole sono commoventi, poiché insegnare «è una vocazione elevata e in un certo senso spirituale; è dato che è elevata è inevitabilmente abbassata dai fratelli, dai fratelli stanchi, dal legittimo bisogno di denaro e dall’orgoglio». Poi il bellissimo paragone:

 

«Ma è impossibile mantenere una tradizione di studio o di scienza senza scuole e senza università e questo significa anche maestri di scuola e professori. E non puoi conservare una religione senza una chiesa e dei ministri di Dio e questo significa professionisti: preti e vescovi – e anche monaci. Il vino prezioso in questo mondo deve avere una bottiglia che lo contenga, o comunque qualcosa che vale meno. Quanto a me, mi sembra di diventare meno cinico invece che più cinico – ricordando i miei peccati e le mie follie; e mi rendo conto che i cuori degli uomini spesso non sono così cattivi come le loro azioni, e molto raramente così cattivi come le loro parole».

 

 Poi, abbandonando il discorso educativo, si sofferma con maggiore acutezza, sulle cadute della fede, quelle in cui più abbiamo bisogno di comprensione  e di riscatto divino:

 

«Il nostro amore può raffreddarsi e la nostra volontà può essere indebolita dallo spettacolo dei difetti, della follia e persino dei peccati della Chiesa e dei suoi ministri, ma non penso che chi una volta ha avuto fede la perda per questi motivi (meno che mai uno che possieda una conoscenza storica). Lo “scandalo” al massimo è occasione di tentazione – come l’indecenza lo è della brama, non la crea dal nulla ma la fa manifestare. È comodo perché distoglie gli occhi da noi stessi e dalle nostre colpe e ci fornisce un capro espiatorio. […] La tentazione di “non credere” ( che in realtà significa il rifiuto di Nostro Signore e delle Sue richieste) è sempre dentro di noi. Una parte di noi anela a trovare una scusa fuori di noi per mollare. Più forte è questa tentazione interiore più facilmente e più severamente saremo scandalizzati dagli altri».

 

E successivamente offre a Michael e a se stesso l’unica soluzione:

 

«L’unico rimedio contro il vacillare e l’indebolirsi della fede è la Comunione. Benché sia sempre lo stesso, perfetto e completo e inviolato, il Santo Sacramento non agisce completamente e una volta e per tutte in ognuno di noi. Come l’atto di Fede deve essere ripetuto e così accresce la sua efficacia. La frequenza garantisce il massimo effetto. Sette volte alla settimana è più efficace che sette volte dopo lunghi intervalli. Inoltre ti raccomando questo esercizio (ahimè! è fin troppo facile trovare il modo di praticarlo): fa la tua Comunione in un ambiente che urti i tuoi sentimenti. Scegli un sacerdote che borbotta e tira su col naso, oppure un frate orgoglioso e volgare».

 

Ecco che la misericordia in lui si riveste d’ironia, di semplicità, di tenerezza verso i più, i cercatori assoluti di ogni scusa, di un qualsivoglia capro espiatorio.

E quella sua paterna compassione e accompagnamento verso i figli si incrocia coi desideri più belli per chi un giorno, a fiumane, lo leggeranno:

 

«Naturalmente, io sto sempre in ansia per i miei figli: che in questo mondo più duro, più crudele e beffardo di quello in cui ho vissuto, devono subire più attacchi di me. Ma io sono uno di quelli che è fuggito dall’Egitto e prego Dio che nessuno della mia stirpe debba ritornare là. Ho assistito (comprendendo solo a metà) alle eroiche sofferenze e alla morte precoce in gran povertà di mia madre che mi ha fatto entrare con sé nella Chiesa; e ho ricevuto lo straordinario aiuto di Francis Morgan. Ma mi sono innamorato del Santo Sacramento fin dall’inizio – e grazie a Dio non me ne sono mai allontanato: ma, ahimè! non ho vissuto sempre alla loro altezza».

 

Una confessione dinanzi al figlio carissimo che ricorda la fretta del Padre premuroso, che, dimenticando l’affronto del prodigo figliolo, gli corre incontro e l’abbraccia. Vedi tuo padre non è semplice da comprendere; anche il Padre Nostro, per farsi capire quanto sia necessario saper amare, ha mandato il Suo (di figlio) a morire sulla Croce. Dio è così tenero che non sa spiegarsi se non nel silenzio, nell’ascolto del nostro ritorno, nell’abbraccio che non vuole parole.

La lettera 294, scritta ai coniugi Plummer, che l’avevano intervistato a febbraio 1967, pochi anni prima della sua morte, traccia il percorso per comprendere questa grande attenzione per le cose vere, per i cibi prelibati dei semplici, dei puri di cuore.

Al termine dell’epistola, ci offre un bellissimo spaccato di ciò che genera la consapevolezza chiara di esser spettatori e attori di un dono, la nostra vita, fonte di meraviglia, stupore e gratitudine.

Si parte dal giudizio errato, che gl’intervistatori si erano fatti, di Tolkien su Dante.

 

«“Dante … non mi attira. È pieno di disprezzo e di malignità. Non m’interessano i suoi meschini rapporti con persone meschine in città meschine”.

Il mio riferimento a Dante è offensivo. Io non mi sogno nemmeno di essere paragonato a Dante, grandissimo poeta. Una volta Lewis e io avevamo l’abitudine di leggercelo a vicenda ad alta voce. Per un certo periodo di tempo sono stato iscritto alla Oxford Dante Society. […] È vero tuttavia che consideravo a volte, la “piccineria” di cui ho parlato, una triste macchia».

 

E poi il ricordo, la genesi della sua formidabile vicenda narrativa:

 

«In realtà tutto cominciò per umiltà, mia e di Lewis. L’umiltà dei dilettanti in un mondo di grandi scrittori. Un giorno L. mi disse “Tollers, ci sono troppi pochi racconti che ci piacciono. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi”. Ci mettemmo d’accordo che lui tentasse un “viaggio nello spazio” e io un “viaggio nel tempo”. Il suo risultato tutti lo conoscono. Il mio sforzo, dopo qualche promettente capitolo, andò a vuoto».

 

E il finale, veramente utilissimo per i vanagloriosi e i violenti ipocriti, nemici del cuore pieno di pace:

 

«“Tolkien … è tra i principali collaboratori della Bibbia di Gerusalemme tradotta di recente”. Nominarmi tra i “principali collaboratori” è una cortesia che non merito da parte dell’editore della Bibbia di Gerusalemme. Originariamente mi era stata affidata una notevole parte di testo da tradurre, ma dopo aver svolto del lavoro preliminare sono stato obbligato a rifiutare a causa di altri impegni, e mi sono limitato a portare a termine Giona, uno dei libri più brevi».

 

Il confronto e la lectio dei due grandi scrittori cattolici, sul loro intendere la misericordia e il suo principale primo attore, non può esaurirsi senza l’incontro festoso di Manzoni con Lucia e di Tolkien con Lúthien, entrambe le vere eroine dello sguardo nuovo, che infiamma i fedeli all’Amore.

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