Scritto da Marilena Picci | Categoria: Cultura | Pubblicato il 29/04/2024
Nel nostro immaginario collettivo spesso non comprendiamo il valore di poter avere costante e libero accesso ai nostri luoghi di culto. Non capiamo quanto non sia scontato poter uscire di casa e avere la possibilità di andare a messa nella chiesa più vicina, che spesso è raggiungibile in poche centinaia di metri.
Questa libertà di poter manifestare la propria fede e unirsi in preghiera con altri credenti in luoghi di culto non è sempre stata possibile (per la religione cristiana) e non lo è tuttora in altre parti del mondo o per altre religioni.
Prima dell’Editto di Milano del 313, con cui l’imperatore Costantino riconobbe la libertà di culto a tutti i popoli da lui dominati, i cristiani si riunivano in abitazioni private (ecclesia domestica) o in semplici costruzioni riservate a scopi liturgici (domus ecclesiae). Di queste "case" restano poche tracce, anche se alcune antiche denominazioni sono passate a chiese ancora esistenti: per esempio, Santa Pudenziana, a Roma, prende nome da Pudente, proprietario della domus che si trovava in questo luogo.
Queste soluzioni diventavano inadeguate quando il numero dei fedeli era copioso. Per far fronte a spazi limitati e ridotti, i primi cristiani approfittavano di qualche spiazzo come poteva essere un cortile del tempio di Gerusalemme, o una zona di un foro cittadino, o un bel prato fuori le mura e vicino a un torrente o ad una sorgente. Questo dimostrava quanto il fervore della preghiera emergesse rispetto al terrore e alle paure delle persecuzioni, così nei primi cristiani come, per esempio, nella popolazione albanese del regime comunista.
Questo tema è stato portato alla luce grazie all’artista Ardian Isufi in alcune delle sue opere, tra le quali possiamo apprezzare una ciminiera convertita in minareto, o un’ex-vetreria riutilizzata come moschea.
In un regime in cui la religione era considerata l’oppio dei popoli, i musulmani e i cristiani ortodossi vedono negarsi il diritto di culto, e l’edilizia religiosa viene conseguentemente smantellata. La risposta del fedele diventa allora, come per i primi cristiani, la riconversione di ambienti già esistenti.
Una delle opere più significative per questo tema della risimbolizzazione religiosa di alcuni elementi architettonici è il Bunker (Fig.1). Si tratta di una fedele riproduzione in scala reale di quello ubicato nel villaggio di Lin sovrastante il lago di Ocrida, nonchè uno delle migliaia di funghi in cemento che durante la fobica tirannia di Hoxha proliferavano in Albania (soprattutto per la sua posizione geografica di avamposto sul mare) per rispondere alla possibile minaccia di un nemico invasore mai sopraggiunto.
Rispetto all’originale Isufi ne decora tutto l’interno della copertura emisferica con figure di santi, dando l’impressione di trovarsi in una cripta subdialis in pieno stile bizantino. Particolare attenzione ricade sulla scelta dell’artista di consacrare anche l’opera, così come il suo orginale, conferendo allo spazio espositivo in cui è ubicata, sacralità e decoro. Il Bunker è rievocativo di quella rifunzionalizzazione che pare addirittura esorcizzare lo spazio della negazione, per essere convertito in un luogo di condivisione.