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Scritto da p.Michele M.Momoli | Categoria: Formazione  |  Pubblicato il 20/07/2024

In uno dei recenti convegni  nazionali sulle vocazioni ha seguito la bellissima testimonianza di S.E. mons. Paolo Bizzeti SJ vescovo in Anatolia. Considerando che “l’indirizzo strategico degli AJC per i prossimi sei anni vuole orientarsi decisamente sulla pastorale giovanile” (cf. PC Vocazioni 1, p.16) potremmo trarre dalle parole del vescovo gesuita degli spunti interessanti.


Il vescovo parlando dell’accompagnamento vocazionale lo definisce come “un costruire insieme al Signore la loro storia”. Sottolinea che attorno alla vocazione ci siano molti equivoci: “C’è molta gente che pensa che la vocazione sia qualcosa di scritto da Dio fin dall’eternità e che uno deve cercare di individuare e di eseguire. E’ terribile! Un Dio che scrive prima la tua storia e pretende che tu la esegua. E’un Dio spietato che poi non ti dà tutti i mezzi per capirlo. No, questo non è il nostro Dio e questa idea di vocazione è un idea un po’ perversa.”  La visione del vescovo potrebbe sembrare provocatoria, ma le parole successive dispiegano tutta la bellezza del suo pensiero e svelano l’intenzione di smontare una visione della vocazione come qualcosa di fatalistico: “Invece il nostro Dio da buon padre e da buona madre desidera che i figli crescano con la loro identità che non è data ma che va costruita”. Questa definizione ricorda la visione artigianale della vita cristiana – e quindi della vocazione – di Papa Francesco.
Mons. Bizzeti specifica il suo concetto dicendo: “ Certamente ci sono dei dati di base, la nostra storia, la storia della nostra famiglia, del popolo in cui siamo nati. Questo è il primo aspetto della vocazione: prendere coscienza che noi abbiamo alle spalle una storia passata che ci ha consegnato dei valori, dei condizionamenti, un patrimonio di cose belle ma anche di cose discutibili. La cosa bella è che questa storia passata chiede di continuare con ciascuno di noi e in ciascuno di noi”. Ciascuno di noi è figlio di una storia, di una situazione, di un popolo, di tradizioni, di cultura, di condizionamenti, di cose belle a livello sociale, famigliare ed ecclesiale.
Riflettendo quindi sulla propria storia si apre un orizzonte, si capisce meglio dove siamo chiamati ad andare. Secondo il vescovo quindi la vocazione “non è qualcosa scritto nei cieli, ma qualcosa scritto dentro di noi,  dentro i nostri desideri, aspirazioni, nei nostri gusti, dentro a quello che abbiamo sperimentato e costruito fino a quel momento e chiede di essere interpretato e unificato”. La vocazione continua il vescovo “non è altro che interpretare al meglio me stesso, non in un senso auto centrato ma tenendo conto del fatto che attorno a me e prima di me e dopo di me c’è una storia più grande che passa dalla storia personale al momento storico che stiamo vivendo”.
È importante allora capire il contesto dove si vive la vocazione specialmente in questi tempi in cui stiamo attraversando una “svolta epocale”. Senza questa incarnazione rischiamo di vivere in realtà parallele, nei nostri mondi, disincarnati. Il vescovo sottolinea un pericolo che porta con sé l’incapacità di incarnarsi nel contesto, nel tempo e nel luogo che stiamo vivendo: “Ci sono persone che con tutta la buona volontà magari però finiscono per creare una specie di mondo religioso parallelo a quello del mondo tante volte fuori del tempo”. Difficoltà questa di cui i formatori devono fare attenzione e aiutare il giovane ad entrare nel gioco della sua vocazione, incarnandosi nella realtà. Infatti dice il prelato: “Gesù stesso il Figlio di Dio si è fatto storia. Quando noi diciamo che si è incarnato noi vogliamo dire che entrato in una geografia, in una storia (…) . Gesù non è che si è fatto uomo, Gesù si è fatto ebreo, del primo secolo, in Palestina. Ha accettato tutto questo, e ha vissuto in quella situazione al massimo delle possibilità che lo Spirito del Padre gli apriva”.

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